CANYON CANDAMEÑA, Sierra Tarahumara, Chihuahua, Mexico
Data: 2 novembre 2023
Climbers: Fabrizio della Rossa, Thomas Gianola, Lorenzo Gadda
Relazione e racconto scritti da: Fabrizio della Rossa
La via conta con 27 tiri. La gradazione è corretta, piuttosto severa. In particolare non vanno sottovalutati nemmeno i tiri sotto al 7a che possono riservare spiacevoli sorprese. Scalata molto varia: molti muri tecnici verticali, non mancano strapiombi, buchi, fessure. La difficoltà a vista può essere accentuata dalla mancanza di segni di magnesio. La distanza fra gli spit varia: quasi da falesia sul 7c-c+, sugli altri tiri possono arrivare ai 6 metri, molto spesso 3-5 metri. La via fu chiodata da persone diverse dall’alto, quindi si trovano anche differenze tra un tiro e l’altro e a volte lunghi run out anche sul duro. Detto ciò però globalmente, la valutazione sulla chiodatura è più che buona. La bellezza della scalata è eccezionale e la vegetazione non infastidisce quasi mai.
giorno 1: trekking fino in cima, bivacco in cima
giorno 2: calata in doppie circa 5 ore, scalata dei primi 10 tiri, bivacco alla fine di L8
giorno 3: scalata fino a L19, bivacco all’inizio di L19
giorno 4: scalata fino in cima, rientro
Abbiamo lasciato 1 saccone in cima, 1 saccone al bivi 2 e 1 saccone al bivi 1. I primi 8 tiri scalati con 1 zainetto in spalla.
C’è bisogno di un trasporto in 4×4
Il telefono messicano inizia a prendere a pochi tiri dalla cima
Appoggi utili: Rancho San Lorenzo: Ana Gabriela Dominguez Olivas +525554598288
Cordata da 3 persone, materiale utilizzato:
Guia de escalada en México di Oriol Anglada
Sembra di stare in un film Western, oramai con pochi cavalli e nessun “caballeros”: qui la natura si erge potente e selvaggia, dà la sensazione di stato ancestrale ovvero dove l’uomo e i suoi artefatti sono così minuscoli e appena abbozzati da essere ingurgitati nella vastità del panorama.
Il giorno dopo il nostro arrivo a Basaseachi saliamo con un vecchio gippone GMC ad un belvedere sulla rete di Canyon: sterrato difficile, impervio, niente parapetto o tabellone turistico, solo 4 assi di legno a formare un ricovero per narcos. Così ci spiega Don Fernando: la parabola satellitare a fianco del riparo e dei bossoli di fucile automatico li a terra, confermano le sue parole.
Don Fernando è un’autorità qui: i suoi 80 anni si possono intuire dagli occhi affaticati alla sera, altrimenti è uno capace di guidare il suo GMC per ore sugli sterrati peggiori, affascinare tutti con la sua parlantina, ragionare sulle questioni geopolitiche mondiali e chiedere a Dio la fortuna di vivere ancora 20 anni per vedere realizzati ancora un paio di progetti che ha in mente. Cosa che sicuramente aiuta è la presenza di sua moglie, di una quarantina d’anni più giovane! Oltre a loro due, l’equipaggio fisso del GMC è costituito dal nipote Pablo e il tuttofare Carlos. Ovviamente nel fondo del gippone troviamo posto anche noi tre, che poi saremmo i clienti.
Don Fernando, che fu pilota d’aereo e che mal sopportava le permanenze in terra statunitense, che sempre si dimostra curioso e informato, che possedeva un Cessna e una piccola pista da decollo nel mezzo della Sierra, ebbene lui sta sempre alla guida mentre Rebecca gli tiene compagnia davanti. Carlos e Pablo sono gli addetti all’apertura e chiusura dei cancelli per le vacche. Don Fernando ha occhi neri e un po’ di cataratta; raggianti baffi bianchi e sombrero d’ordinanza, pancia rotondetta dal consumo di patatine e coca cola mentre l’alcool non gli piace. Nemmeno è di suo gradimento vivere in città, dove pure ha una casa. Lui è felice nel suo Rancho isolato, in una casa di legno e calce, scaldata dalle stufe a legna. Don Fernando vede per la sua terra, la sierra Tarahumara, un radioso futuro: parla di ecoturismo, sentieri per bici, scalata e piste da quod: tenendo in considerazione, forse, tutta quella fetta di mercato americano e messicano in particolare, che senza un motore sotto il sedere proprio non ce la può fare!
Don Fernando un giorno ci carica insieme all’equipaggio e ci porta a visitare un altro suo Rancho: entriamo in jeep e i pini si diradano lasciando spazio a una piana erbosa con un fiumiciattolo che scorre al centro. L’erba secca, gialla, si propaga il lontananza fin contro lunghe pareti rosse. I pini riprendono fino ad arrivare alle capanne del rancho: dietro le capanne e il ristorante, oltre il torrente, le pareti modulano la valle: torri gialle, placche grigie e strapiombi rosseggianti. Ci racconta che questi alloggi sono pronti da diversi anni ma solo ora, a causa di alcuni problemi coi narcos, hanno potuto aprire ai turisti. Don Fernando seppur non abbia mai scalato, intuisce il potenziale e ci chiede a noi che ne pensiamo. Percorsi i pochi passi che ci separano dalle rocce, confermiamo il potenziale che l’ottima roccia rappresenta qui per la scalata.
Dal rancho, in pochi minuti di jeep, arriviamo al belvedere dei narcos da dove l’intrico dei canyon appare in tutta la sua potente maestosità. Completamente disorientati osserviamo 1000 metri più in basso il lento scorrere del fiume, poi più lontano, oltre il susseguirsi delle pareti, la rete di canyon sembra proseguire all’infinito.
Don Fernando dice che questo posto è come il Grand Canyon quando diventerà grande: questo io non lo so, sicuramente il canyon dei Gringos sarà o più lungo, o più profondo o più grosso, tanto si sa quanto gli statunitensi necessitino primeggiare. Certo è che, al di là dei record, a me che non riesco a smettere di guardare, alla luce di un delicato tramonto autunnale, mi sembra di cogliere qui l’inizio di questo nostro pianeta. Se non l’inizio, forse la fine.
La cima del Gigante, dal suo versante meridionale, si alza di pochi metri rispetto ai boschi di pini dell’altopiano. Invece verso nord precipita per 900 metri senza soluzione di continuità, dentro l’abisso del Canyon di Candamena. I primi salitori della parete impiegarono muli, portatori e maceti per aprire il cammino fino al fondo del canyon. Oggigiorno la via di discesa più comoda è passare per la cima e da lì calarsi lungo tutta la parete.
Così allestiti i preparativi, carichiamo i nostri sacconi nella jeep di Don Fernando: equipaggio al completo, in circa due ore di pessimo sterrato arriviamo in vista della cima. Da qui noi tre scalatori salutiamo e, caricati i pesanti sacconi, ci incamminiamo verso la nostra meta. Giunti in cima prendiamo una decisione non preventivata: anziché iniziare le doppie stasera, allestiamo un comodo bivacco e, acceso il fuoco, ci godiamo una nottata da hotel 5 stelle.
Il giorno seguente, dopo 5 ore dedicate alla discesa, tocchiamo finalmente il fondo del canyon: il fiume è poco distante ma la fitta vegetazione ci relega in un minuscolo spazietto tra la parete e i rovi. Aver raggiunto la base calandosi dall’alto mi sembra abbia tolto un po’ di senso ad un’attività che già di per sé molto senso non ce l’ha: ora mi chiedo, perchè scalare tutta questa parete se poi, raggiunta la cima, saremo di nuovo al punto di partenza? Comunque ora, schiacciati contro la parete, con le corde già filate a terra, e acqua e viveri lasciati lungo la parete, appare decisamente tardi per riflessioni filosofiche.
In cordata siamo in 3, Thomas Gianola alias Bubba, amico di una vita, Lorenzo Gadda, ottimo più recente acquisto nella giostra delle amicizie: alcune nascono, altre si perdono. La scalata è una brutta bestia, il compagno è necessario e per affrontare una salita che fa paura lo cerchiamo forte, meglio se più bravo di noi. Spesso l’amicizia va in secondo piano. Fortunatamente questa volta non è così e Thomas, che è un giovane di 28 anni ma contraddistinto da un insolita saggezza, è anche abbastanza stupido da condividere con me la leggerezza dell’essere di cui personalmente sento la necessità, lungo il faticoso incedere della vita.
Della scalata tutto sommato c’è poco da dire: su questa via trovo tutte le sensazioni che da sempre vado ricercando tra le sequenze di appigli e appoggi; i tiri di corda del primo giorno in parete sono tutti ricercati e impegnativi e a sera ci troviamo al primo bivacco con la netta sensazione che uscire da questa parete non sarà affatto facile.
Al bivacco ritroviamo il saccone lasciato qua durante le calate: sacchi a pelo, fornello, viveri, acqua, vestiti caldi e un po’ di erba. Un amaca in questo nido d’aquila ci consente di ricavare posto da dormire per tutti e tre. Con una calata di pochi metri si raggiunge il bagno, da utilizzare comunque muniti di imbracatura. Poi una veloce cena mentre le luci delle nostre frontali iniziano a vagare senza senso, inghiottite dall’oscurità. E intanto il suono del fiume in fondo al canyon si fa potente.
Il secondo giorno in parete inizia con la risalita delle corde che il giorno precedente avevamo già fissato sui successivi due tiri. Queste due lunghezze sono tra le 4 più impegnative della via ed erano bastate, la sera prima, a frantumare miseramente i nostri sogni di gloria riguardo alla salita in libera di tutta la via. Decisamente troppo duri per pensare di scalarli in bello stile e velocemente, ma anche troppa la pressione psicologica per pensare di investire tempo ed energie su questo tratto di parete, quando ancora a separarci dalla vetta rimangono due terzi di via, tutti difficili e con protezioni distanziate.
Infatti il timore di esaurire anzitempo le energie e trovarsi svuotati a 6-7 o anche solo 1 tiro dalla fine, ormai impossibilitati a proseguire, magari in posti dove non esiste soccorso organizzato, è un fattore che gioca un peso decisivo nel gioco delle big wall. Avremmo potuto optare per una differente strategia, portare in parete tanto materiale e viveri per passare 5-6 giorni in parete, scalando con calma e riprovando più volte i tiri di corda in libera. Ma questo stile, in fondo, non rientrava molto nelle corde della nostra cordata!
Insomma meglio per noi se diamo tutto quanto abbiamo da dare per salire la via nello stile più elegante possibile: la salita in libera è l’obiettivo da perseguire fino al raggiungimento dei nostri limiti. Non abbiamo sponsor, sicché l’esperienza conta solo per noi: nessun risultato sportivo da vantare ma una dolce sensazione di libertà nel confessarlo.
Oltre ai 4 tiri tra il 7c o 7c+, la maggior parte dei tiri del secondo e terzo giorno hanno difficoltà tra il 7a e 7b+: sono tutti impegnativi, spesso chiodati lunghi e la mancanza di segni di passaggio, leggasi magnesio sugli appigli, rende le sequenze estremamente complesse; qui la scalata a vista raggiunge la sua apoteosi! Tutti i tiri vanno dal bello allo stratosferico. Tra sacconi da recuperare, risalite in jumar, scalata al nostro limite, anche il secondo giorno si spegne in un battibaleno. Il secondo posto da bivacco, decisamente più comodo del primo, ci regala una bellissima stellata. Prima di coricarci, pulendo la piazzola dai sassi, ne abbiamo lanciato giù uno bello grosso che solo dopo parecchi istanti ha fracassato al suolo. In questo momento sono stato avvolto da una sensazione di malessere: più o meno dalla stessa altezza, qualche anno fa, uno scalatore era precipitato a causa della rottura della sua corda, tranciata da un masso. Steso sull’ amaca mi lascio cullare dal vento e penso a come mi piacerebbe che la mia ora arrivasse disteso nel mio letto, ormai anziano e sereno.
Alba del terzo giorno, routine quotidiana: piccola doppia per scendere al bagno, colazione con latte in polvere e muesli. Si parte di nuovo jumareando sulle corde statiche fino alla cima del tiro montato la sera prima. Da qui scatta per me la vera sveglia: il prossimo tiro è gradato 7b+, scalo fluido fino ad uno spit da dove sembra diventare piuttosto duro. Con terrore noto che il seguente spit è a 5-6 metri di distanza: in equilibrio con i piedi in spalmo guardo in su ma non riesco a intuire la sequenza di movimenti, so solo che tra poco dovrò superare il punto di non ritorno, o meglio, quel punto da cui l’unico ritorno possibile è con un lungo volo. Quindi non è la bravura che mi fa passare per di là a vista, ma piuttosto la paura, quella sana che ti fa rimanere attaccato con le unghie e coi denti, quella che non ti paralizza ma ti fa scommettere tutto. All-in.
Così il terzo e ultimo giorno prosegue tra tiri bellissimi fino alla cima. Li stanno i rimasugli del nostro fuoco di tre notti prima, un po’ d’acqua da bere e ancora un po’ di erba. Dietro di noi è ben visibile l’enorme colata nera della cascata di Piedra Volada ora secca. L’ombra della cima del Gigante si proietta maestosa sul fondo del canyon. Laggiù il fiume continua a scorrere anche se il suo poderoso ruggito, da quassù, è ormai un ricordo del primo bivacco. Sulla cima, strano punto di inizio e ora approdo finale, ci stiamo noi, tra noi e il torrente un mistico viaggio all’inizio e alla fine del mondo.